(a+b): Space Design, un esercizio per immaginare scenari futuri

Questo articolo è stato scritto per Salone del Mobile.Milano e precedentemente pubblicato sulla piattaforma salonemilano.it

Entrambi PhD, architetti, designer e professori alla Scuola del Design del Politecnico di Milano, Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro sono i fondatori dello studio (a+b) e i massimi esperti in architettura e design per lo Spazio e ambienti estremi. Collaborano stabilmente con le principali agenzie e industrie spaziali internazionali e con importanti aziende del design. Parallelamente conducono attività di ricerca al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, unita all’insegnamento e alla pubblicazione di saggi sulla cultura del progetto che hanno contribuito ad affermare il ruolo strategico del design nello Spazio.

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Space Design: cosa vuol dire progettare per lo Spazio e cosa implica?

Progettare per lo Spazio significa “ricominciare da capo”, pensare con un’altra logica e per un altro ambiente, applicare ai progetti nuove metodologie, immaginare habitat, equipaggiamenti e strumenti per usi e attività difficilmente prevedibili da noi che viviamo qui sulla terra, ma che implicano, nella maggior parte dei casi, una relazione diversa tra il nostro corpo, gli oggetti e lo spazio circostante. Vivere nello Spazio presuppone due condizioni particolari: il confinamento, che possiamo sperimentare anche sulla terra, e la microgravità, che non fa parte della nostra esperienza quotidiana e richiede una grande capacità di “previsione d’ uso” per immaginare come si comporterà un oggetto nello spazio, come verrà usato, e in che modo si relazionerà con l’ambiente circostante, considerando che la mancanza di gravità altera molti parametri fisici e cognitivi, fisiologici e posturali, ergonomici e motori, ma anche psicologici ed emozionali, di cui non abbiamo esperienza. Questa pratica risulta molto difficile, dato il numero ancora ridotto di missioni spaziali umane che non hanno consentito di creare un’esperienza consolidata, e soprattutto codificabile, riguardo agli effetti e ai comportamenti degli esseri umani nello Spazio.

Il nostro obiettivo principale è dimostrare attraverso progetti, ricerche, partecipazione a eventi, simposi, e pubblicazioni, la centralità e la progressiva diffusione del Design per lo Spazio, che si pone assumendo un ruolo strategico all’interno di una comunità scientifica. Il design, infatti, si distingue per la forte capacità creativa di generare nuovi scenari di futuri possibilipone i bisogni dell’essere umano al centro, e attraverso i progetti dà “forma” ad habitat extra-terrestri e nuovi prodotti integrando diversi linguaggi, tra cui quello della scienza, della tecnologia, ma anche dell’usabilità e della bellezza. Nei nostri progetti di architetture spaziali ci piace andare oltre gli aspetti funzionali e considerare quelli fisiologici ed emozionali, che hanno una grande influenza sui nostri comportamenti e sul benessere.

Oltre a progettare ambienti sensoriali, lo Space Design, secondo noi, deve essere d’ispirazione per le aziende private, come quelle del design, con idee dirompenti in grado di proporre nuove visioni, nuove applicazioni di tecnologie spaziali, ma anche di buone pratiche e comportamenti, che possiamo trasferire dallo Spazio alla Terra e viceversa. Pensiamo a nuovi modi di vivere lo Spazio, o applicazioni di tecnologie e comportamenti terrestri che possono ispirare nuovi progetti per migliorare la vita degli astronauti. Nell’era della New Space Economy il designer diventa anche un “produttore” di idee e suggestioni, è un “connettore” tra scenari futuristici e sviluppo tecnologico, crea un dialogo tra saperi produttivi distanti tra loro per generare innovazione.

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Parlando proprio dei design brand, qual è la loro reazione? Quali le sfide e gli insegnamenti tratti?

Oltre a collaborare con Thales Alenia Space, per noi è molto importante ogni anno coinvolgere aziende del design insieme a quelle spaziali, che abbiano il know-how specifico per affrontare i vari progetti.

La loro reazione iniziale è di entusiasmo, unito però ad una certa perplessità, peraltro legittima, di non essere in grado di confrontarsi con un ambiente come lo Spazio, che è riconosciuto come il più avanzato tecnologicamente, e di non avere gli strumenti necessari per affrontarlo. Ma qui entriamo in gioco noi, il nostro compito è parlare linguaggi diversi e fare da “ponte” fra Spazio e Terra, unendo scienza, tecnologia e bellezza, dimostrando come il design può svolgere un ruolo molto importante e strategico per generare innovazione ispirandosi a tecnologie spaziali, ma anche buone pratiche e comportamenti che possono essere d’esempio per noi che viviamo sulla Terra. E viceversa.

Ci è capitato di proporre durante i nostri progetti, come per esempio l’ultimo concept di stazione spaziale commissionatoci da Thales Alenia Space, i tessuti acustici di Caimi Brevetti per rivestire l’interno di un particolare modulo di abitazione dedicato alle attività di intrattenimento, per il quale abbiamo insistito molto sugli aspetti sensoriali e sensibili, come l’assorbimento acustico, la qualità della luce, i colori, i materiali per rendere l’intero ambiente molto più “morbido” e accogliente. Ora alla NASA stanno testando i materiali acustici di Caimi Brevetti per capire se possono integrarli all’interno dei moduli della Stazione Spaziale Internazionale (ISS che è un ambiente molto rumoroso. Pensiamo che sia un grande successo per una azienda del design e siamo molto contenti di essere stati noi a fare da “ponte” e che l’azienda abbia accettato questa sfida.

E come lei tante altre ci hanno seguito. Con Argotec, abbiamo approfondito i temi legati al cibo nello Spazio, sia dal punto di vista nutrizionale che tecnologico, sempre progettando con grande attenzione ai gesti, e con Barilla, Ancap e Italesse abbiamo disegnato nuove forme di pasta stampate in 3d e nuove modalità per gustare il vino senza farlo uscire dal bicchiere. Abbiamo coinvolto TechnoGym, per rendere l’attività fisica degli astronauti più piacevole e divertente, introducendo anche esercizi a coppie e di gruppo per rafforzare il senso di appartenenza dell’equipaggio. In uno dei 12 progetti che abbiamo sviluppato, l’ispirazione ai movimenti degli acrobati è stato uno spin-in utile per immaginare nuove modalità di esercizi a bordo. Con Foscarini abbiamo progettato nuovi spazi interni definendoli con la luce per ricreare “paesaggi” terrestri, come il komorebi giapponese: è quella luce smorzata che filtra tra le foglie degli alberi, è uno stato d’animo, un’atmosfera che abbiamo cercato di riprodurre artificialmente, con attenzione anche a ristabilire i ritmi circadiani, che in ambiente confinato vengono alterati per mancanza di luce naturale.

Le sfide che affrontiamo con le nostre aziende sono sempre molto entusiasmanti, perché le spingiamo ad andare oltre modelli consolidati ed affacciarsi su nuovi scenari possibili in cui si aprono concrete possibilità di creare il nuovo. Noi crediamo che lo Spazio, già oggi, ma sempre di più nel prossimo futuro, eserciterà un’influenza determinante sui nostri stili di vita, incrementando la qualità delle performance, modificando i comportamenti, creando nuovi bisogni… le aziende del design che per prime sceglieranno di accogliere queste nuove opportunità e tradurle in prodotti saranno pioniere del prossimo futuro, che è già qui, anche se non tutti ce ne siamo accorti.

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Cosa può insegnare questa disciplina agli studenti e ai progettisti nel 2022?

Progettare per lo Spazio è un esercizio molto potente per liberarsi da schemi e mappe mentali costruite negli anni che ci limitano la fantasia e aprirsi al nuovo, allo sconosciuto. Gli studenti che si iscrivono al nostro corso Space4InspirAction – il primo e unico corso di architettura e design spaziale al mondo riconosciuto e supportato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che teniamo alla Scuola del Design del Politecnico di Milano – sono attirati proprio dalla possibilità di sperimentare la vita su altri mondi, di immaginare scenari che non fanno parte della loro esperienza terrestre, di aumentare le loro capacità di visioning, e soprattutto, di progettare ambienti, arredi, equipaggiamenti e oggetti insieme ad esperti, scienziati di ESA e le aziende che ci aiutano a dare forma a questi nuovi scenari.

Lo stesso esercizio vale anche per i progettisti che per attitudine incrociano ricerca e know-how dell’industria, progettano con l’obiettivo di incrementare benessere e sostenibilità, sono attratti dall’innovazione scientifica e tecnologica e guardano al futuro con fiducia cercando soluzioni che consentiranno alle persone di vivere lo Spazio come noi oggi viviamo sulla Terra, ma con più consapevolezza e rispetto per il nostro pianetae le sue risorse.

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Com’è iniziata la collaborazione con le agenzie spaziali?

Guardando le stelle… e chiedendoci cosa avrebbe potuto fare un architetto e un designer per lo Spazio.

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C’è anche una metodologia specifica per affrontare questi progetti, design dell’uso e del gesto, cosa significa?

Quando progettiamo per gli astronauti, cerchiamo di immergerci nell’ambiente della Stazione Spaziale Internazionale (ISS e immaginare come il nostro corpo potrebbe muoversi in microgravità, come le nostre posture e i nostri gesti potrebbero cambiare in relazione agli oggetti e soprattutto, come potrebbero essere disegnati i nuovi tools per funzionare bene anche nello Spazio, e perché no, trarre vantaggio dalla mancanza di gravità, da sempre considerata un limite da contrastare. La nostra esperienza di progettazione e ricerca al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano ci ha portato a definire una nuova metodologia che abbiamo chiamato Use and Gesture Design (UGD) e che si basa sulla progettazione simultanea di ambienti, oggetti e gesti. Ovvero, contemporaneamente allo sviluppo del progetto conduciamo un’attenta analisi delle azioni, dei movimenti e dei gesti del corpo in microgravità. Nel processo di progettazione “l’artefatto” e di pari importanza rispetto allo “schema d’uso” e la creazione di un’idea, di un concept di progetto per lo Spazio, deriva dalla progettazione simultanea di azione, movimenti e gesti che vengono simulati in funzione di come dovrà o potrà essere usato l’oggetto progettato, in che modo e con quali procedure, in quanto tempo, e da quanti “attori”. Citando Pierre Rabardel, è come se l’idea formale e prestazionale di un progetto si sviluppasse contemporaneamente a una “sceneggiatura” potenziale dei movimenti e dei gesti dell’attore.

Se progettare per lo Spazio significa proiettare le caratteristiche globali del futuro oggetto sulla scena dei suoi usi possibili e visualizzarlo in azione fra le mani, addosso, nell’ambiente microgravitazionale dove verrà usato, ne consegue che anche l’attore è in ultima analisi artefice dell’oggetto, perché la sua prestazione ne rende completo e pienamente attualizzato il progetto. Ogni azione d’uso è infatti da intendersi come azione interpretativa e il progettista valorizza, all’interno del processo di sviluppo dei prodotti, sia la gestualità e il movimento che accompagnano l’oggetto, sia l’oggetto stesso, ponendosi, come nella danza, artefice del programma gestuale, del rito e non delle sue tracce.

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Cover, Space4InspirAction, Scuola del Design, Politecnico di Milano

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