“Questa crisi è una meravigliosa opportunità per rallentare tutto, per riallineare tutto, per disegnare un orizzonte più autentico e vero… Questa crisi è anche una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità: basta con la moda come gioco di comunicazione, basta con le sfilate in giro per il mondo, al solo scopo di presentare idee blande. Basta intrattenere con spettacoli grandiosi che oggi si rivelano per quel che sono: inappropriati, e voglio dire anche volgari.” scrive Giorgio Armani nella lettera a WWD Women’s Wear Daily (1), rivista settoriale punto di riferimento del mondo della moda. Nonostante queste parole facciano riferimento a un settore specifico, potrebbero essere applicate senza problemi anche al mondo del design.
Il periodo che stiamo vivendo ci impone una riflessione sul modo di produrre e consumare, lo abbiamo ripetuto e sottolineato anche nei precedenti articoli di Covi/Design, con particolare riferimento ai dispositivi di protezione personale. Oggi parliamo di un problema collegato alla sovrapproduzione che ci portiamo dietro dagli inizi del XX secolo, l’obsolescenza programmata.
Nel 1924 viene registrata la Phoebus S.A. Compagnie Industrielle pour le Développement de l’Éclairage, un cartello di diverse società per il controllo della produzione e della vendita di lampadine. L’evento è una rivoluzione per la moderna storia dell’economia e dell’obsolescenza pianificata: è stato il primo caso in cui un gruppo di aziende decide di accorciare deliberatamente la durata di vita di un prodotto, così da aumentare il numero di articoli venduti (2).
L’industria automobilistica fa altrettanto: gli anni ’20 Ford, General Motors e Chrysler emergere come i primi produttori negli anni ’20. La produzione in serie consente loro economie di scala, questo slancio però rallenta nel 1924 e il settore nazionale americano inizia a vedere la saturazione della domanda. Le vendite dovevano migliorare, quindi Alfred P. Sloane Jr., allora direttore generale della General Motors, propone di introdurre la politica del model year: differenziare esteticamente e nelle dotazioni i modelli in produzione ogni pochi anni, se non ogni anno, mantenendo i prezzi il più possibile invariati, incentivando il cambio dei mezzi ai proprietari o attirando nuove fasce di acquirenti. Questo contrasta con la politica storica del rivale Henry Ford, il cui successo si è basato proprio sulla standardizzazione della produzione e delle catene di montaggio. Chi vince lo decreterà il mercato: nel 1931 la General Motors supera la Ford nella domanda interna americana e ne attacca le quote su quella estera.
Con il passare degli anni, le aziende hanno sviluppato diverse strategie per imporre l’obsolescenza programmata, i cui impatti e il cui uso sono arrivati fino ai giorni nostri. Apple è un esempio recente, con gli aggiornamenti di sistema: il Tar Lazio ha recentemente respinto il ricorso del brand contro la sanzione dell’Antitrust per obsolescenza precoce. La sanzione è dovuta a “pratiche commerciali scorrette e aggressive, consistenti nell’aggiornamento dei dispositivi senza un’opportuna comunicazione ai clienti delle conseguenze causate dall’installazione, come lo spegnimento improvviso.” (3)
Vediamo quindi due tipologie di obsolescenza, una è percepita, estetica (come i modelli della General Motors) e una tecnica (Cartello Phoebus e Apple). E per il mondo del design? Possiamo affermare che segue un’obsolescenza estetica?
Sì, perchè eventi come Salone del Mobile e Fuorisalone hanno ormai la tendenza a focalizzarsi di più sul lato intrattenimento che su quello che presentano. Il marketing trasforma tutto in design e spesso ci si dimentica dell’innovazione e della tecnologia, affascinati da installazioni interattive e instagrammabili. Gli eventi nascono per fare rete, trovare contatti e firmare contratti, ma quando la qualità e l’innovazione vengono a mancare c’è un grosso problema. (4) (5)
Un altro aspetto fondamentale è il tempo. I ritmi di eventi annuali come il Salone del Mobile, impongono la presentazione di nuove collezioni, ma questo non è sostenibile a livello di produzione: per sviluppare e mettere sul mercato un complemento cucina, per esempio, ci vogliono alcuni anni. Se presento una cucina nel 2010 e la metto in vendita al pubblico nel 2015, il mio prodotto è innovativo? Riesce ad essere al passo con i tempi? La risposta è no.
Questa tendenza allo styling porta il design a comportarsi quasi come la moda, vestendo ogni anno in modo diverso l’arredo, ma senza rinnovare veramente nulla all’interno del settore.
L’obsolescenza pianificata ha dei benefici esclusivamente per il produttore perché, per ottenere un uso continuativo del prodotto, il consumatore è obbligato ad acquistarne uno nuovo e a gettare via quello ormai vecchio, o guasto, e spesso non convenientemente riparabile. (6)
L’obsolescenza è quindi un aspetto fondamentale per il capitalismo e la crescita economica industriale: è un modo per produrre di più e forzare l’utente a comprare un altro prodotto, sia per ragioni estetiche che tecniche. Nel primo caso si tratta di far percepire all’utente un’idea di moda, di invecchiamento del prodotto, dall’altra parte invece si tratta proprio di decidere di inserire pezzi la cui durata di vita è limitata.
La comunicazione e il marketing sono gli strumenti che aiutano questo processo, per questo motivo le aziende spendono di più in questi settori che in quelli di ricerca e sviluppo. Lo storytelling però non deve essere creato per vendere il prodotto, ma deve essere esso stesso generato dall’oggetto e dal suo valore.
Uno dei modi che abbiamo per contrastare tutto ciò è la nostra conoscenza in materia di prodotti: deve essere il consumatore a compiere scelte consapevoli ed essere in grado di riconoscere una storia vera da una costruita. Dobbiamo educare chi compra a capire il vero valore dell’oggetto, economico, funzionale, estetico e materico.
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