In un recente articolo in italiano su “Gli Stati Generali”, progetto che unisce giornalismo professionale e partecipativo, Chiara Alessi, critica ed esperta di design, parla di forma e sostanza. Nonostante il titolo sia molto azzeccato e promettente, Tesoro, ci siamo persi la forma (ed è un problema di sostanza), Chiara liquida in un breve testo la questione forma-sostanza, così breve da non riuscire ad esprimere nessun concetto se non un’analisi superficiale e confusionaria.
Parlando di forma, Chiara vuole battezzare gli anni ‘10, caratterizzati dalla multidisciplinarietà e dalla contaminazione. I progetti di quel periodo mancano di una forma definita o caratterizzante, perciò decide di chiamare la decade con la parola Amorfismo. La definizione è corretta se descritta come: “la condizione dell’amorfo, come non scelta, in realtà non porta alla non forma – ma a una forma non controllata, subita, trascurata a tal punto che non abbiamo neanche un nome per definirla.“ MA Chiara continua dicendo “Mi interessa ricordarvi che la forma (anche la più perversa e disturbante in alcuni casi), la forma quanto più è forte più vince, che se non bastessero i risultati politici (EH?), basterebbe guardare i vostri profili instagram per confermarlo: abbiamo bisogno di uno stile (?), in cui riconoscerci o da cui prendere le distanze o anche in cui riconoscerci per prendere le distanze o in cui non riconoscerci affatto.”
Instagram? Quindi abbiam bisogno di un nuovo stile o di una nuova forma? Riconoscerci in uno stile è abbastanza per definire un nuovo tipo di forma e di design? Non sarà un problema di sostanza? Quel termine menzionato solo nel titolo?
Guardiamo questo progetto. Non c’è bisogno di nominare l’azienda per capire di chi stiamo parlando. Cito: “Per la prima volta (??), una serie di arredi in cui lo stile vintage dell’arredo scandinavo è corrotto da grafiche pubblicitarie pazze e sopra le righe, il prodotto ideale per dare un cambio contemporaneo anche agli spazi piu tradizionali.”
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Tante parole per un semplicissimo armadio caratterizzato da una stampa, un prodotto degno di una casa di moda o un tapezziere. L’azienda si è limitata a vestire l’arredo. Questo è un esercizio di stile (styiling), come la Substantial Chair di Alexander Schul o Ma’or di Alexandre Boucher o ancora i tavoli del brand Ikon Kobenhaven.
Oggetti del passato, e non oggetti qualunque, rivisitati, modificati leggermente per poter essere venduti come propri. Quando il design si presenta come tale esercizio, manca la sostanza. Qual è il valore aggiunto che l’azienda o il designer dà al proprio prodotto?
Ricapitolando, siamo a mio parere in un’era buia del design se non riusciamo più a riconoscere i progetti con contenuti e sostanza dal progetto-ricerca creato ad hoc per instagram, dalla banale collezione di arredi, uguale ad altre mille, ma con un costo molto superiore, principalmente dovuto alla griffe. Il periodo di crisi, il passaggio da economia del prodotto a economia del servizio, l’avvento dei social e di un’estetica violenta, quasi invasiva, questi sono solo alcuni dei tanti fattori che hanno contribuito alla perdita di contenuti validi nei progetti di design – non tutti i progetti naturlamente. Tornando all’articolo di Chiara e alla discussione attorno a forma, sostanza e stile, non abbiam bisogno di una corrente in cui riconoscerci o allontanarci, abbiamo bisogno di uno spirito critico maggiore, per poter dare sostanza ai progetti, in relazione al contesto in cui nascono, e quindi una forma chiara e riconoscibile. Amorfismo o no, abbiamo bisogno di progetti veri e forse la multidisciplinarietà e la contaminazione possono essere una via, se mediata dai designers.
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