“COLTIVARE” IL COLORE con funghi e batteri

Per millenni, uomini e donne hanno impiegato pigmenti naturali – estratti da vegetali, funghi, minerali o animali – per tingere i tessuti. Finché, nel 1856, il chimico inglese William Henry Perkin non brevettò la prima tintura sintetica al mondo, un colorante violaceo chiamato “porpora di anilina” o mauveina. Questa invenzione aprì la strada all’industria dei coloranti come la conosciamo oggi. Infatti gran parte dell’abbigliamento o del makeup sul mercato viene tinto con derivati petrolchimici – diretti discendenti del pigmento sintetizzato da Perkin – molto dannosi per la salute e per l’ambiente, responsabili del 3% delle emissioni globali di carbonio e del 20% dell’inquinamento delle acque di cui è responsabile l’industria tessile.

Tuttavia – come sostiene Phil Patterson, consulente e direttore di Colour Connection – tornare alle tinture naturali non è più un’opzione sostenibile. Oltre ad essere costosi e richiedere grandi quantità di materia prima, i coloranti organici fanno affidamento su una filiera che rischia, a lungo termine, di compromettere le risorse naturali del nostro pianeta – in particolare vegetali, quando il pigmento è estratto da piante, minerarie nel caso di coloranti come l’ocra o il blu cobalto. Secondo Patterson, la soluzione si troverebbe quindi nell’intersezione tra naturale e sintetico, uno spazio ibrido dove gli schemi della natura si prestano all’implementazione umana.

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Lo sviluppo di pigmenti sostenibili, ottenuti da processi rinnovabili, è la sfida congiunta a cui si stanno dedicando designer, ricercatori e aziende, combinando biotecnologie e design con risultati che promettono di cambiare per sempre il modo in cui tingiamo i nostri capi e non solo. La designer e biomolecular scientist Jesse Adler ha individuato nei funghi la risorsa ideale per portare avanti questa missione. Il suo progetto Alchemical Mycology, presentato all’ultima edizione di Dutch Design Week, esplora le potenzialità di questi organismi nel ridurre o eliminare la nostra dipendenza dai coloranti provenienti da risorse non rinnovabili. “Collaborando” con il mondo del micelio – di cui si considera “alchimista” – Adler ha sviluppato una linea di prodotti make-up in cui le sostanze coloranti estratte da funghi, licheni, lieviti e muffe, oltre a tingere ombretti e rossetti con nuances che vanno dall’azzurro, al rosso, all’ocra, rivelano caratteristiche degne dei migliori prodotti skincare: dalle proprietà antiossidanti fino alla protezione dai raggi UV.

Adler, laureata al Central Saint Martins di Londra con un master in Material Futures, pensa già agli sviluppi futuri del suo metodo di estrazione del colore che potrebbe rappresentare una svolta andando ben oltre il mondo del makeup.

“Il mio obiettivo è quello di estrarre l’organismo dalla natura una sola volta, per poi coltivarlo e riprodurlo in laboratorio, in modo che l’ecosistema possa funzionare normalmente senza alcuna interferenza da parte mia”, spiega la designer a proposito della sua ricerca, che è in continua evoluzione. Lo scorso settembre Adler ha iniziato una residenza di cinque mesi presso la Jan van Eyck Academie di Maastricht, in collaborazione con Central Saint Martins, per ricercare altre applicazioni di questi pigmenti.

Tra le iniziative della Jan van Eyck Academie c’è il progetto Future Materials Bank, un indice open source che raccoglie centinaia di nuovi materiali bio-based e sostenibili. All’interno della piattaforma, i progetti che propongono alternative a coloranti industriali non mancano: da Color Amazonia, che mira a salvaguardare pigmenti e metodi di tintura naturali tipici del territorio amazzonico, a progetti come If a Tree Falls o Bark Pigment, che sfruttano la corteccia come colorante fino ad arrivare a sistemi per la colorazione di tessuti a partire dai batteri.

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Con Moving Pigments, la designer Charlotte Werth – anche lei uscita dal Central Saint Martins con un MA in Material Futures – propone un sistema automatizzato e scalabile per produrre pigmenti tessili da colture di batteri vivi, ottenendo un delicato, non sempre prevedibile, effetto tie-dye. 

Nel 2018, Werth ha costruito un laboratorio microbiologico per sperimentare con questi organismi nella produzione di coloranti tessili. Il risultato è un dispositivo simile a un tradizionale telaio, dove la stoffa, sterilizzata prima e dopo il processo di colorazione, passa attraverso quattro bagni di tintura, ovvero una sostanza liquida già inoculata con i batteri. “Questi microrganismi hanno bisogno di ossigeno per crescere e produrre pigmenti. ‘Nutrendo’ il tessuto attraverso questi bagni di tintura, si creano linee e sfumature di colore: così i batteri crescono direttamente sul tessuto, creando pattern e disegni unici.”

“Il processo di colorazione può essere guidato in modo molto rigoroso, ma non controllato completamente, il che significa che si verificano piccole irregolarità nel processo di progettazione” spiega Werth, descrivendo una sorta di collaborazione con i microrganismi che hanno parte attiva nel processo progettuale. Un co-design che abbraccia l’imprevedibile e l’imperfetto della natura aprendo nuovi scenari nel design dei tessuti e introducendo nuovi valori estetici che mettono in discussione gli standard di uniformità richiesti dal mercato di massa. 

Werth non è l’unica ad aver ricercato nei batteri un’alternativa agli inquinanti coloranti chimici. C’è anche chi, come l’inglese Colorifix, della “scienza del colore sostenibile” ha fatto un’azienda. Sfruttando i principi della biologia sintetica, Colorifix produce pigmenti naturali in laboratorio “coltivandoli” attraverso la fermentazione in loco di colonie batteriche in un processo che i ricercatori paragonano alla produzione di birra. Con la modificazione genetica (ma etica) degli organismi, Colorifix sviluppa palette ispirate ai colori della natura attraverso un sistema replicabile e perciò sostenibile: “Il primo passo consiste nel trovare un colore creato da un organismo in natura, sia esso un animale, una pianta, un insetto o un microbo. Attraverso il sequenziamento del DNA online (mai un esemplare fisico) individuiamo i geni esatti che portano alla produzione del pigmento e traduciamo il codice del DNA nel nostro microrganismo. Il microrganismo ingegnerizzato che ne risulta è in grado di produrre il pigmento proprio come viene prodotto in natura”.

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