Il DESIGN che ci riconnette con il mondo, intervista a Malacou Lefebvre

Abbiamo conosciuto Malacou Lefebvre, designer e fondatore di Atelier Malak, all’ultima edizione di Edit Napoli. Oggi lo incontriamo in un tour dello spazio industriale dove da due anni ha insediato il suo atelier – all’interno di una ex fabbrica di tessuti a Lione – per capire cosa sta dietro ai suoi arredi così essenziali, e insieme così misteriosi, e approfondire un’idea di design che mette al centro il corpo e il contatto con la materia.

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Prima di iniziare la tua carriera di designer lavoravi nella finanza. Cosa ti ha spinto alla nuova professione?
Ho iniziato a produrre oggetti per me, ricercando le emozioni che provavo da bambino quando ero libero di creare qualsiasi cosa. Da piccolo ero molto creativo, mi appassionavano le arti plastiche. Quattro anni fa, dopo averne passati cinque nella finanza, ho riscoperto il piacere di progettare in modo autonomo e ho messo su un piccolo laboratorio nel garage dei miei genitori. Lavoravo sempre, giorno e notte. Alla fine mi sono detto: mi piace questo lavoro, devo continuare a farlo. Ho iniziato con il metallo perché mi permette di andare veloce: ho studiato e imparato da solo come lavorarlo. Allo stesso tempo ho dovuto trovare la mia strada, il mio percorso estetico.

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Quali sono i tuoi materiali preferiti?
Oltre all’acciaio, mi piace lavorare con il legno o la pelle. Ma quello che vorrei davvero esplorare – in realtà l’ho già fatto, ma in piccolo – sono le rocce.

Perché?
C’è qualcosa di molto potente dato dal fatto che le pietre restano così come le ho trovate nel luogo d’origine, le Alpi. Le foro e ci inserisco componenti in acciaio, contrapponendo alla loro solidità elementi molto leggeri. La pietra è interessante anche in termini fisici: la pesantezza delle rocce permette di creare lampade molto alte. Ne ho realizzata una di tre metri per il sindaco della mia città, che ora tiene nel suo ufficio.

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Il suo elemento, però, resta il metallo. Il modo istintivo, semplice e scultoreo con cui Lefebvre lo maneggia, è tra le cifre stilistiche più riconoscibili del suo lavoro. Proprio sull’uso dell’acciaio – di cui nell’atelier le scorte abbondano – si basa la nuova collezione a cui il designer si sta dedicando, in arrivo a febbraio. Si chiamerà Entr’Act, – in italiano Intermezzo – e comprende già una decina di pezzi, tutti diversi ma basati sullo stesso principio: sono stati disegnati e realizzati (ovviamente a mano, perché Malak non vuole filtri o intermediari) in un’ora ciascuno.

In anteprima ci mostra i primi arredi della collezione: una seduta con schienale e braccioli, fantastica nel suo corpo di acciaio lucido prima della verniciatura; un piccolo coffee-table – “Che si può mettere ovunque” — sempre d’acciaio, verniciato di giallo e di blu; una lampada a stelo, il cui corpo è un intreccio di tubi metallici piegati a freddo, una tecnica molto usata dal designer. Infine, un mobile scultoreo su tre livelli, una struttura autoportante di colore blu che potrebbe stare bene ovunque e su cui appoggiare qualsiasi cosa.

“Si tratta di una collezione più divertente, disimpegnata e accessibile rispetto alle precedenti.”

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Perché più accessibile?
Più accessibile in termini di prezzo e più semplice in termini di forme. Sono mobili disimpegnati, che si possono mettere ovunque, non c’è bisogno di avere una casa grande o speciale.

Mobili facili.
Sì, e per tutti. Io produco mobili costosi che molte persone non possono permettersi, quindi stavolta volevo fare qualcosa di diverso.

Quand’è che un mobile è costoso, secondo te?
Una volta i nostri genitori erano abituati ad investire molto denaro in mobili che però duravano per venti o trent’anni, per poi essere lasciati ai figli. Oggi ci siamo abituati alla “fast furniture”, a trasferirci spesso da una casa all’altra, e il settore si è trasformato di conseguenza. Penso che dovremmo tornare un po’ “indietro” e custodire i nostri arredi più a lungo. A quel punto il prezzo non sembrerà troppo alto: io “divido” il prezzo per il tempo per cui possiedo l’oggetto. Possiamo comprare un mobile Ikea a 200 euro e buttarlo dopo due anni, o investirne 800 per qualcosa che ne dura venti.

È quando passi molto tempo con gli oggetti che sviluppi un attaccamento.
Esatto. Ci si attacca agli oggetti e ci si sviluppa un profondo legame quando li si conserva nel tempo. Credo che il tempo sia molto importante nelle relazioni. Ed è esattamente lo stesso per gli oggetti.

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Qual è stato il primo oggetto che hai disegnato? 
(Ci mostra il primo prototipo della lampada Eclipse – immagine in copertina – già esposta in precedenza ma non ancora sul suo sito perché – dice – vorrebbe farne una collezione più articolata.)
È ispirata al lavoro del filosofo e botanico italiano Emanuele Coccia, secondo cui tutto è compenetrato. Secondo Coccia, si vive anche nel mondo degli altri. L’idea di Eclipse è quella di percorsi che si incrociano e che con l’incontro producono luce.

Parliamo un po’ del tuo processo creativo. Come passi dall’idea al prodotto?
Faccio molti schizzi. Ma non uso computer o altre cose algoritmiche perché alla fine si tratta di un processo binario, da cui ottieni sempre 1 o 0. Anche se ci si possono fare molte cose, per creare non va bene, è un metodo troppo normativo. Quindi faccio molti schizzi, ovunque. Per terra, sui muri, ora ti mostro.

Il tuo studio sta diventando uno sketchbook.
Esatto (dice Lefebvre, inquadrando una parete dove, proprio sopra alla sua chaise longe Oisif n°3, si vedono gli outline di alcune sedute disegnati col gesso nero). Quando ho degli stagisti e chiedo loro di progettare, ad esempio, un tavolo, usano direttamente il computer. Allora do loro un craie – un gessetto – e iniziano a disegnare per terra. Penso che per fare mobili devi metterci il corpo. Se sei dietro al computer, il tuo corpo non è lì. E se vuoi sentirti bene negli spazi, nelle proporzioni, eccetera, devi prima metterci il tuo corpo. Gli sketch non li finisco, sono completi al 60-70%, perché subito dopo uso il materiale grezzo. Inizio a metterlo a terra, cerco di sentire le texture e i volumi, le linee.

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Come dovrebbe evolvere oggi il design secondo te?
Quando metti al primo posto il tuo corpo usi una parte di ciò che sei. Oggi abbiamo perso contatto con la fisicità anche per via della cultura in cui viviamo, molto influenzata da religioni che vedono nel corpo la sede di quanto di più negativo, basso e sporco ci sia nell’essere umano. Abbiamo perso la capacità di percepire, guardare e ascoltare. Il design può evolversi in modo positivo creando connessioni con ciò che sta fuori da noi stessi, recuperando una sensibilità fisica. Per me i problemi ecologici derivano da questa separazione tra i nostri corpi e il mondo che ci circonda.

Quali sono le tue reference nel mondo del design?
Louise Bourgeois. Mi piace il suo processo creativo, tutto è molto interessante e potente. E c’è qualcosa di zoomorfo ovunque, che è d’ispirazione per quello che faccio. In Kafka, c’è sempre un mix ambiguo tra animali e umani: una potente anticipazione di qualcosa di molto contemporaneo. Gran parte del mio design ha queste caratteristiche zoomorfe che penso incarnino un sentimento generazionale.

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Attraverso dettagli, silhouette o giochi di percezione, gli arredi di Atelier Malak evocano delicatamente il mondo animale, a partire da Exopode, la serie di sedute ispirate all’esoscheletro degli aracnidi, o le lampade Cyclopedus, che sembrano girare il loro lungo collo d’acciaio e guardarti attraverso il profondo paralume. Le forme che Malak scolpisce sono l’espressione di un pensiero – e un design – realmente contemporaneo, frutto del bisogno di miscelarsi, di abbattere le categorie e i confini tra il dentro e il fuori, tra l’umano e ciò che non lo è, il tutto sublimato in oggetti semplici da usare tutti i giorni. 

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Qual è il tuo più grande successo come designer?
Due anni dopo aver iniziato la mia attività conobbi la mia prima gallerista, a Parigi. Ancora non sapevo cosa stessi facendo, stavo solo esplorando. Un giorno, mi disse: “Non preoccuparti. Riconosciamo quando si tratta di Atelier Malak.” E io: Cosa riconoscete? Stavo progettando istintivamente, senza un filo conduttore tra un prodotto e l’altro. Ma sentirmi dire: “Lo riconosciamo”, è stato molto forte. 

Ha riconosciuto la tua firma.
Sì, quando ancora non sapevo di averla.

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