Che cos’è il Collectible Design?

Abbiamo spesso parlato del Collectible Design, dalle nuove fiere e mostre dedicate al tema fino a designer e studi che si occupano di questa “fascia di mercato” specifica – dopo sarà più chiaro perché non lo abbiamo definito un settore – ma di cosa stiamo parlando? Cosa è Collectible e cosa no? (Immagine copertina di Tamara Schipchinskaya)

La nascita del Collectible Design

Lasciando da parte il mondo dell’arte, possiamo dire che è complesso dare delle definizioni uniche a prodotti e metodi legati al mondo del design oggi: quello che è contemporaneo un giorno sarà catalogato come vintage, in più, nuovi concetti di produzione si sono inseriti e aggiunti alla storica collaborazione tra ufficio tecnico e progettista, come per esempio l’iperserialità.

Se facciamo un passo indietro e prendiamo solo la parola Collectible, questa definisce l’aggettivo collezionabile, cioè “che si può collezionare/di interesse per un collezionista”, da Collectable. In passato il collezionismo legato al design ha sempre guardato a pezzi antichi, esotici o “vintage”, difficili da trovare, a volte frutto di produzioni seriali che sono cessate nel tempo, facendo diventare i pochi pezzi rimasti rari.

L’uso del termine Collectible associato a Design sembra aver avuto origine dal mercato dell’arte un paio di decenni fa, una “strategia approvata” dice Glenn Adamson, curatrice di design e storica, a Elle Decor. Le fa eco Alexandra Cunningham Cameron, curatrice al Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum ed ex direttore creativo delle fiere Design Miami, dove si ritiene abbia avuto origine il termine Collectible Design, che racconta che il mercato del design è nato circa 20 anni fa per imitare il mercato dell’arte: “La gente pensava che l’artigianato non fosse abbastanza sexy, quindi l’idea era di abbracciare il design come termine per creare diversi tipi di interesse, intenditori, attenzione e aumento del valore monetario”.

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Seth, Sekhmet Vase by Studiopepe. Courtesy of Galerie Philia © Flavio Pescatori

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Il problema del Collectible contemporary design

Per definire il collectible design oggi è necessario il contesto: senza pensare agli artisti impegnati nel collezionismo o ai progettisti defunti, per i più fortunati – progettisti, artigiani e makers ancora attivi – si tratta di prodotti e arredi funzionali che vengono sviluppati su richiesta per gallerie, collezionisti o piattaforme online. Pezzi unici, serie limitate o sperimentazioni.

Altre volte si tratta di ricerche che il progettista porta avanti e autoproduce, magari in collaborazione con qualche artigiano, affidandosi poi nuovamente a gallerie e piattaforme online per la vendita – con un ricarico sulla vendita del prodotto oggettivamente alto e quindi maggiore difficoltà a creare profitto: o vendo ad un prezzo alto garantendomi una percentuale o svaluto il mio lavoro per avere un prezzo di vendita più basso e quindi arrivare a più clienti.

Per aiutare a definire questo mondo ci viene in aiuto anche una famosa fiera dedicata al collectible contemporary design, Collectible appunto, fondata a Bruxelles nel 2018 dalla consulente di arte e design con sede a Parigi Clélie Debehault e dal direttore artistico di Rotterdam Liv Vaisberg. La selezione comprende “…pezzi unici, commissionati o edizioni limitate, i pezzi sono funzionali o tengono a mente la funzionalità durante il processo e tutti i lavori devono essere stati prodotti di recente, sono favorite le anteprime.” Fin qui tutto torna. Nel momento in cui però, passeggiando tra gli stand, si ritrovano le opere di Michelangelo Pistoletto o di altri artisti affermati del secolo scorso, torna il dubbio, stiamo parlando di arte o di design?

Si tratta per definizione di Design da collezione e quindi pezzi limitati, con un prezzo di fascia alta. Non è una novità trovare tra gli stand di gallerie un tavolo di Carlo Mollino o un’opera di Enzo Mari o Alighiero Boetti, o recentemente anche Maarten Baas, Ron Arad, ma stiamo parlando di Mollino, Mari, Boetti, Bass, Arad, nomi che hanno fatto/ stanno facendo la storia del settore, oggettivamente riconosciuti da tutti come maestri. La domanda sorge quindi spontanea, oggi si può creare per il Design da collezione?

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Ph. Courtney Cook

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La vera forza del Collectible Design

Forse ci sfugge la vera forza di questa definizione: nonostante sia nata per dare rilievo ad una specifica fascia di mercato, va a raccogliere molti progettisti e studi che dedicano una grande ricerca ai materiali, alle tecniche di produzione e alle tecnologie.

Spesso dietro un nuovo prodotto si nasconde il consiglio di un artigiano, sperimentazioni materiche, l’utilizzo di nuove tecnologie, investimenti personali e finanziamenti privati. Serie in pezzi limitati dove la personalizzazione a volte sta nel processo stesso, naturale o per mano del progettista. Arredi, prodotti e oggetti che vogliono diversificarsi dal mercato seriale ed evidenziare la qualità del prodotto e la competenza di chi li crea. Non stiamo forse parlando di artigianato?

Come racconta Alexandra Cunningham Cameron, è stata associata la parola design all’artigianato per spingere il valore monetario del mercato. Se accanto al Collectible Design – in quanto Design da collezione di pezzi limitati delle grandi firme, fuori produzione, quello a cui siamo sempre stati abituati – introducessimo una nuova definizione per ridare valori a pratiche di ricerca e artigianato, legate a maestranze locali e nuove innovazioni?

Un nuovo artigianato?

Il problema non è il Collectible Design ma la progettazione per la creazione di oggetti da collezione. Siamo in un momento storico in cui il designer deve interrogarsi sulla propria pratica, sull’ambiente in cui si trova, ma anche trovare nuovi modi per vendere i propri prodotti. Abbracciare l’idea del design da collezione pone automaticamente l’arredo/oggetto in una fascia alta di prezzo, tagliando fuori tanti altri possibili target, in un mercato esploso negli ultimi anni – sono scelte. C’è da aggiungere che no, purtroppo non è sostenibile creare l’ennesima collezione in serie limitata – a meno che non sia totalmente “circolare” – perché significa fomentare un’idea apparente di scarsità e continuare a produrre.

In un paese in cui c’è difficoltà nel ricambio generazionale del settore artigiano – dal 2012 ad oggi, secondo un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese), in Italia abbiamo perso 325mila artigiani (-17,4%) – non dovremmo rivalorizzare il saper fare più che la funzione dell’oggetto?

Se ridefinissimo il concetto stesso di artigianato? Le botteghe diventano i nuovi studi e laboratori, gli artigiani sono i designer e i makers che, oltre ad autoprodurre i propri pezzi, mettono il loro sapere a disposizione di aziende e privati. Così forse andremmo a valorizzare il lavoro del progettista, il materiale, la tecnica e allo stesso tempo saremmo in grado di acquisire l’esperienza della tradizione per portarla ai giorni nostri, con un nuovo punto di vista.

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